Da meno di un decennio il Salento è colpito da un grave male
estraneo, che vuole distruggere la risorsa più importante del territorio: la
terra. Parliamo della terra con la “t” minuscola, così ricca di colori, che
rende questa parte d’Italia, una zona
unica al mondo. Eppure il morbo vuol
distruggere questa unicità che da secoli riempie le pance di chi vi abita e
sazia, con le meraviglie di un paesaggio abbellito da secoli di lavoro, gli
animi bendisposti alla bellezza.
I primi a morire, sotto i colpi del male, sono stati
migliaia di vigneti, sterminati per fare spazio a campi fotovoltaici e
altissime pale eoliche. Allora arrivarono esperti di agricoltura e ci dissero
che noi non sapevamo produrre uva da vino di qualità: dovevamo cambiare! Ma cambiare
per andare in quale direzione? La
direzione fu presto chiara: nel giro di qualche anno il prezzo dell’uva fu ribassato sino a 8 euro al quintale (una miseria!) e i prezzi dei fitofarmaci raddoppiati. Ai contadini fu presto offerta un’alternativa (per i meno remissivi, a suon di minacce e percosse); al posto dei vigneti le istituzioni regionali permettevano di far installare ad imprese, spesso in odor di mafia, nuove “piantagioni” che bruciavano la terra sino a creare il “deserto”: campi fotovoltaici e le torri eoliche. E mentre noi perdevamo terra e territorio, sacrificati sull’altare della cosiddetta “energia pulita”, le (super)attive centrali a carbone di Brindisi intossicavano la nostra aria. Alla fine, quando non c’era più nulla da concedere “all’energia verde”, l’uva è ritornata ad avere un mercato vantaggioso e il prezzo degli anticrittogamici è iniziato a scendere, sino a dimezzarsi: peccato che non c’erano più i vigneti! La manodopera agricola locale, sfruttata da un nuovo caporalato nascosto da pseudo agenzie di viaggio o cooperative, è stata costretta a cercare lavoro a qualche centinaio di chilometri (nel sud barese o sulla costa jonica tra Puglia e Basilicata), sottoponendosi a viaggi estenuanti che, talvolta, allungano la giornata lavorativa sino a 14 ore, con paghe nette tra i 30 e 35 euro: schiavi, in poche parole!
direzione fu presto chiara: nel giro di qualche anno il prezzo dell’uva fu ribassato sino a 8 euro al quintale (una miseria!) e i prezzi dei fitofarmaci raddoppiati. Ai contadini fu presto offerta un’alternativa (per i meno remissivi, a suon di minacce e percosse); al posto dei vigneti le istituzioni regionali permettevano di far installare ad imprese, spesso in odor di mafia, nuove “piantagioni” che bruciavano la terra sino a creare il “deserto”: campi fotovoltaici e le torri eoliche. E mentre noi perdevamo terra e territorio, sacrificati sull’altare della cosiddetta “energia pulita”, le (super)attive centrali a carbone di Brindisi intossicavano la nostra aria. Alla fine, quando non c’era più nulla da concedere “all’energia verde”, l’uva è ritornata ad avere un mercato vantaggioso e il prezzo degli anticrittogamici è iniziato a scendere, sino a dimezzarsi: peccato che non c’erano più i vigneti! La manodopera agricola locale, sfruttata da un nuovo caporalato nascosto da pseudo agenzie di viaggio o cooperative, è stata costretta a cercare lavoro a qualche centinaio di chilometri (nel sud barese o sulla costa jonica tra Puglia e Basilicata), sottoponendosi a viaggi estenuanti che, talvolta, allungano la giornata lavorativa sino a 14 ore, con paghe nette tra i 30 e 35 euro: schiavi, in poche parole!
Dopo la vigna, divorata da un mercato affamato e incurante,
la nostra terra sta perdendo gli ulivi; guarda caso proprio quando le
istituzioni regionali avevano deciso (finalmente, dico io!) di proteggere
questo territorio col nuovo piano paesaggistico. Gli ulivi, fermi testimoni di
secolari storie, muoiono colpiti da una malattia che in tanti secoli non
avevano mai conosciuto: la xylella. Anche adesso –così come era successo per le
vigne – giungono da fuori “dotti” rappresentanti delle istituzioni: ci vengono
a dire che dobbiamo cambiare il modo di coltivare! E noi a richiederci «ma
cambiare per andare in quale direzione?».
Un tempo la nostra terra era sacra; dalla terra sorgeva
la forza vitale degli uomini, degli animali, delle piante; dalla terra venivano
tirate fuori le pietre per le nostre case; sulla terra s’intrecciavano le
relazioni tra chi la abitava; e, come
una grande madre, la terra ci nutriva. Valore – afferma Vandana Shiva, in Le Guerre dell’acqua – viene dal latino valere, che vuol dire “essere forte,
valido”. Stiamo riducendo il valore, e quindi la forza che un tempo
riconoscevamo alla nostra terra, nel semplice valore commerciale: conviene di
più coltivare la terra oppure prendersi i soldi (senza sforzi) concedendola
(quasi fosse una prostituta!) in comodato alle multinazionali delle energie
rinnovabili? Se questo è l’unico problema che ci si è posti sinora, si può immaginare
che il prossimo si ridurrà, semplicemente, nel definire il prezzo da accettare
per l’uccisione degli ulivi “malati”. Proseguire con questa logica
dissacratoria uccide l’Anima della terra e delle comunità che la abitano; in
questo modo si perderanno le risorse e il diritto riservato alle comunità a cui
esse appartengono; su questa via, altri popoli hanno già visto sgretolarsi gli
equilibri di una pace sociale per intraprendere sentieri oscuri e tragici.
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